L’empatia dell’algoritmo

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L’empatia dell’algoritmo

Cari lettori, ben ritrovati.

Negli ultimi post, riflettendo sulla necessità di un “cambiamento radicale di direzione, che rilanci l’occupazione, il consumo e il livello di vita soprattutto attraverso un new deal ecologico-economico”¹, avevo indicato nel welfare aziendale una possibile leva di innesco di questa trasformazione. Assieme e velocemente abbiamo prima ripercorso la storia del welfare aziendale per andare poi ad accennare al metodo per valutare e verificare l’allineamento tra gli effetti di ogni singolo dispositivo di welfare messo in campo con i risultati che volete realizzare. La presentazione della metodologia ci ha portato all’evidenza che anche scegliere un servizio di welfare piuttosto che un altro è una decisione manageriale e ci siamo chiesti “Come fanno i manager a scegliere?”.

La risposta, non inaspettata, è stata che occorre partire dalla conoscenza delle realtà che si vuole trasformare.

Qui però abbiamo preso una direzione un po’ meno battuta proponendo di fare raccontare alle persone le loro vite (anziché fare un questionario) e soprattutto analizzare a che cosa chi fa parte della nostra comunità si interessa sulla intranet aziendale e magari incrociare questo con quanto pubblica sui social media pubblici e, infine, rileggere tutti i dati che abbiamo sul rapporto di lavoro secondo la prospettiva di realizzare un sistema di welfare che risponda alle aspettative delle persone e anche ne sviluppi le competenze e favorisca la cittadinanza organizzativa.

Al di là dell’occasione specifica (organizzare un sistema di welfare), su questo punto mi piacerebbe riuscire ad attrarre la vostra attenzione: se vogliamo avere la chance di comprendere e, magari (perché no?), guidare l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro abbiamo la necessità di reimparare a leggere tutti i dati disponibili nell’ecosistema cui appartiene il rapporto di lavoro perché “i giorni dei dati strutturati, puliti, semplici e basati su sondaggi sono finiti. In questa nuova èra, le tracce caotiche che lasciamo via via che avanziamo nella vita stanno diventando la fonte primaria di dati”². Ancora, “internet visualizza i legami che uniscono le persone nelle reti sociali, rende pubblici pensieri e conversazioni e collega i puntini tra le persone accomunate da interessi, obiettivi, ideali, valori, passioni, perversioni, errori”³.

Se queste citazioni vi sembrano sensate in generale, e tuttavia non le avete ancora applicate alla modellizzazione del welfare aziendale e, più in generale, del lavoro potrebbe essere perché resiste in voi l’idea che il lavoro è un fenomeno affatto distinto dalla vita delle persone (e del resto continuiamo a parlare di “work-life balance”) o perché in fondo diffidate della tecnologia.

Nel frattempo “siamo entrati in una nuova fase dell’era dell’informazione, una fase in cui l’ibridazione tra bit e altre forme di realtà è così profonda che cambia radicalmente la condizione umana”⁴. E infatti, come scrivevamo qui un po’ di tempo fa⁵, il lavoro post-digitale sta enfatizzando gli aspetti relazionali del lavoro, ma disaccoppiandoli dalla prossimità li assimila alla dinamica del funzionamento di internet ed in particolare alla logica di un sistema di nodi (o hub) in continua espansione.

Possiamo navigare in questo mare informazionale costantemente mosso dalla propria crescita comprendendo gli elementi, i dati, che lo formano. Anzi, credo che non abbiamo alternative, cari lettori.

Infatti, mai come adesso così tante informazioni su di noi sono state generate e conservate. Il loro impiego è da preferire rispetto all’illusione di impedirne l’utilizzo e così mettersi al riparo dagli abusi. Ci sarà sempre una fake news, come ci sarà la manipolazione dei dati che produciamo e non fermeremo il vento con le braccia, ma possiamo alzare le vele e fare il nostro viaggio. La migliore scelta sarà un ecosistema regolato in modo da avere al vertice il rispetto del benessere individuale e alla base la sostenibile prosperità della comunità.

Perciò gli algoritmi possono essere i nostri alleati e anche per loro vale la descrizione che fa di sé Jessica Rabbit: “Io non sono cattiva è che mi disegnano così “. Certo gli alleati occorre saperli scegliere e nel tempo la relazione con loro va ben coltivata. Nel caso degli algoritmi dovremo fare attenzione a non “infettarli” coi nostri bias (per il bias algoritmico v. A. Jean, Nel Paese degli algoritmi) consapevoli che vi trasferiremo la nostra visione del mondo (v. G Tratteur, Il prigioniero libero). Per questo è importante come raccogliamo i dati, quali selezioniamo e come li comprendiamo per prendere le nostre decisioni perché “l’ibridazione tra bit e altre forme di realtà è così profonda che cambia radicalmente la condizione umana”.

Questa nuova condizione si applica anche alla progettazione dei sistemi di welfare aziendale e, più in generale, alla modellizzazione di nuove modalità lavorative. E la sfida che ne deriva non è realizzare sistemi produttivi innovativi o efficienti, ma sostenibili con riguardo alle persone.

Perciò, l’empatia, cari lettori, è il punto di crisi che la facilità, l’accessibilità e l’ubiquità della tecnologia nella transizione al post-digitale possono innescare nell’esecuzione delle nostre strategie di sviluppo del lavoro.

¹E. Morin, Cambiamo strada
² S. Stephens-Davidowitz, La macchina della verità.
³ M. De Baggis, #Luminol.
⁴L. Floridi, The Onlife Manifesto: Being Human in a Hyperconnected Era.
Il lavoro post digitale, Lavoro e transizione digitale, Tre domande sul lavoro post digitale, Welfare e lavoro post digitale.

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