Ma che cos’è questo welfare?

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Ma che cos’è questo welfare?

Cari lettori, ben ritrovati. Nel post precedente, elaborando le parole di Edgar Morin¹ sulla necessità di un “cambiamento radicale di direzione, che rilanci l’occupazione, il consumo e il livello di vita soprattutto attraverso un new deal ecologico-economico”, avevo indicato nel welfare aziendale una potenziale leva di questa trasformazione anticipandovi che, per dare corpo a questa ipotesi, avrei prima ripercorso la storia del welfare aziendale per andare poi a un focus su come la transizione al post digitale può influire sull’evoluzione dei servizi di welfare.

Ma che cosa è il welfare?

La parola probabilmente deriva da “to fare well”, che possiamo tradurre con “passarsela bene” e nel XX secolo è stata impiegata per indicare iniziative e dispositivi di attenzione ai bisogni, al benessere e alla sicurezza dei membri di gruppi o comunità.

In Italia di certo non è un’invenzione del ‘900 se sappiamo che già nel Medioevo “ser Buonamico, della …famiglia dei Capponi, fondò … un piccolo spedale destinato al ricovero di <infermi, bianti (viandanti) et peregrini>” (v. L. Artusi, Le curiosità di Firenze).

In epoca più recente esempi di welfare si trovano nel mondo del lavoro e precedono il vero e proprio sviluppo industriale: negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento prosperano il villaggio di Larderello nel Granducato di Toscana e la colonia operaia di San Leucio nel Regno delle Due Sicilie.

Nello stesso periodo nascono le società di mutuo soccorso (la prima a Pinerolo nel 1844 su iniziativa di un gruppo di calzolai). Queste organizzazioni danno ai soci cure gratis in caso di malattia e assistenza per invalidità, vecchiaia e morte. Nel 1879 in Italia già esistono 1959 SMS che contano 327.173 soci effettivi e nel 1886 ricevono una vera e propria disciplina legale.

È a fine Ottocento che nelle imprese (prevalentemente le industrie tessili) si configura la nuova attenzione a garantire un futuro ai propri lavoratori e alle relative famiglie (ne sono esempi Cristoforo Benigni Crespi a Crespi d’Adda, Gaetano Marzotto a Valdagno). Queste iniziative di “paternalismo organico” hanno l’effetto di facilitare il sostanziale distacco degli operai dal loro retroterra agricolo per accelerarne l’integrazione nel “nuovo” sistema di fabbrica.

Nela stessa direzione si proseguirà nel Novecento. All’inizio da parte degli imprenditori più lungimiranti per attrarre e trattenere manodopera qualificata, poi con il corporativismo fascista (che integra stabilmente il welfare nel sistema produttivo) e a seguire, nel secondo dopoguerra, con le aziende che costruiscono nuovi alloggi e rafforzano i dispositivi assistenziali per i propri collaboratori e le loro famiglie.

Qui l’esempio più celebre e celebrato è il welfare aziendale di Adriano Olivetti, che ebbe l’ambizione di assistere i propri lavoratori in tutti gli aspetti della vita, in azienda e in famiglia per superare la visione strumentale ed economicistica del welfare. È su queste linee di azione che nel 1960, oltre alla realizzazione ad Ivrea di alcuni quartieri residenziali, in un complesso quadro di attività culturali e di opere sociali e sanitarie, la Olivetti istituì anche il Fondo di solidarietà interna, che prevedeva numerosi interventi previdenziali e assistenziali, compresi i trattamenti ospedalieri, integrativi di quelli pubblici.

Fermiamoci un momento perché quello della Olivetti non è un caso isolato; nello stesso periodo abbiamo il villaggio operaio di Larderello, un esempio che arriva dal passato, e la Metanopoli dell’ENI, un’iniziativa che apre al futuro. Dato che «…non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse»², come mai così tante iniziative di welfare? Probabilmente perché c’è bisogno di attrarre forza lavoro e il salario da solo non basta in uno Stato che non assicura adeguatamente l’accesso ai mezzi di sviluppo individuale e sociale.

Infatti, questo approccio imprenditoriale entra in crisi nei decenni successivi la fine degli Anni Sessanta quando ci si sposta verso dispositivi di welfare universali, legati alla cittadinanza. Ecco che allora il welfare aziendale diventa marginale e costoso perché cresce l’onerosità dei contributi sociali obbligatori a carico delle imprese destinate a pagare il welfare pubblico, che allo stesso tempo assorbe numerose casse, enti e fondazioni di natura privatistica.

Poi con gli anni Ottanta arriva un cambio di direzione, se non proprio un’inversione, con lo sviluppo dei fringe benefits per i lavoratori più qualificati. Ecco che i programmi assistenziali e previdenziali di matrice aziendale diventano sempre più articolati e vengono introdotte voci retributive indirette sconosciute al welfare del secolo precedente (stock options, auto aziendali, ecc.). Questo approccio inizialmente prende la forma di una moderna politica remunerativa per élite, limitata ai manager e agli specialisti a più alto inquadramento contrattuale; ma poi la contrazione dello stato sociale ha riportato l’attenzione su un welfare più attento a dare a tutti i lavoratori risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi rischi sociali (ai quali il welfare pubblico risponde poco o mai).

Questa lunga traiettoria si consolida con le modifiche legislative del 2016, che, aumentando benefici fiscali e campo d’azione, fanno del welfare aziendale una leva di remunerazione sostenibile perché connessa alla produttività.

Insomma, al termine di una cavalcata di lustri e decenni il welfare aziendale dismette definitivamente le volubili vesti del paternalismo ed entra nel dominio del più robusto saggio di profitto del capitale, che in modo semplificato possiamo esprimere così:

𝑟=(𝑙−𝑤)/𝑤

Dove:

r= saggio del profitto,

l= valore prodotto,

w= costo (salario) della produzione

E veniamo all’oggi.

La crisi economica causata da COVID-19 sta acutizzando i bisogni sociali e l’interdipendenza nelle comunità aprendo la via a un welfare della somministrazione di misure socialmente utili (si pensi p.e. alle aziende che hanno finanziato campagne per la vaccinazione antinfluenzale del personale). Il legislatore intervenendo sul cd. carrello della spesa col raddoppio dell’esenzione fiscale (da 258,23 a 516,46 euro: mentre scrivo si tratta di una misura temporanea limitata al 2020, ma siamo in attesa di novità nella Legge di Bilancio 2021) sembra voler andare nella direzione di consentire ai datori di lavoro di offrire beni o servizi fungibili ad un’erogazione monetaria e soluzioni intese a contribuire al benessere psico-fisico delle persone. A questo ultimo proposito non ci può sfuggire il ricorso al lavoro agile come mezzo di protezione dai rischi di contagio o la concessione di ferie «di emergenza» riguardanti i lavoratori impiegati in aree aziendali colpite da forti cali di attività.

Questa storia che vi ho tratteggiato ci dice che nell’Italia contemporanea welfare e lavoro possono generare valore ed energie per il benessere della comunità nazionale; ma questo risultato auspicabile è condizionato da scelte basate sui fatti e non sulla desiderabilità sociale. Ci serve un sistema che avrà i propri abilitatori in business case, key performance indicator, tecnologia digitale, partnership, piani di comunicazione, certificazione di qualità e sinergia con le altre forme di welfare (quello pubblico, ma anche tutte le altre forme private).

Ma di questo, cari lettori, ci occuperemo, se vorrete, nel prossimo post.

 

¹E. Morin in Cambiamo strada, Le 15 lezioni del coronavirus

²Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni

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