Perché ha ancora senso interrogarsi sui modi di lavorare? – Digital4Pro

Perché ha ancora senso interrogarsi sui modi di lavorare?

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Perché attraverso il lavoro possiamo comprendere meglio noi stessi in relazione con gli altri e perché molto del senso comune che definiva questo fenomeno è in crisi per effetto dei cambiamenti in corso nella storia e nella tecnologia.

Perciò, caro lettore, se hai la pazienza di seguirmi provo a dirti che cosa sta succedendo secondo me. Dal XVIII secolo il lavoro è stato al centro della modernità occidentale. Questa, a sua volta, lo ha definito facendone uno strumento di sviluppo sociale e oggetto della sua ossessione per la tecnica.
Questa relazione è testimoniata dalle splendide pagine dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, che descrivono l’ambiente di lavoro come luogo di crescita personale ed uguaglianza, o del Candido di Voltaire, che collegano il lavoro alla soddisfazione dei nostri bisogni, sia materiali che morali; ma anche dalle paure che troviamo raccontate in due capolavori del cinema, così lontani eppure così vicini, come Metropolis e Tempi moderni; o dall’epica di canzoni come Working class hero.

Oggi, sebbene l’idea di modernità sembra avere esaurito la sua spinta propulsiva per effetto delle crisi commerciali, della preoccupazione per il clima e della “facilità” della tecnologia, il lavoro è ancora un’interfaccia sociale, ma senza le certezze ideologiche di un tempo.
Forse proprio per questo il lavoro mantiene una chiara presenza sulla scena sociale uscendo dalle fabbriche e dagli uffici ed entrando ancora di più nelle nostre vite attraverso le tecnologie digitali.
Al centro di questa scena abbiamo non noi ma l’informazione, che ci pone «in-betweenness», cioè nel mezzo a più cose nello spazio-tempo. Oggi «essere è essere interattivi, anche se ciò con cui interagiamo è solo transitorio e virtuale» … «stiamo accettando l’idea di non essere i soli e unici Robinson Crusoe su un’isola bensì Inforgs, organismi informazionali reciprocamente connessi in un ambiente (infosfera) che condividiamo con altri organismi sia naturali sia artificiali, che processano informazioni logicamente e autonomamente» 1 . Noi siamo semplicemente i birilli che fanno girare la pallina dentro il flipper; ognuno è un “unico” in una moltitudine di “unici”, immerso nella rete, con un suo network, e tutte le volte che tocca un’informazione questa viene sparata verso tutti i contatti del network personale che, a loro volta la gireranno, in un istante, a tutte le loro connessioni.
Se allarghiamo la visuale della nostra prospettiva, vediamo che questa trasformazione avviene contestualmente all’accresciuta importanza delle esternalità nelle attività produttive come se il sistema sociale nel suo complesso stesse ampliando l’estensione dei suoi interessi oltre i confini dei bisogni primari.

E infatti il lavoro è ora oltre la dimensione della mera produzione di oggetti e servizi e chi lavora si pone l’ambizioso obiettivo di soddisfare la sua tensione a fare esperienze coerenti con le proprie aspirazioni: esperienze dove i diversi aspetti della vita possono essere agiti per i significati che veicolano e dai quali deriviamo la nostra identità rendendoli in questo modo inscindibili da noi nel corso del tempo.

Questa aspirazione non può non cambiare il modo in cui lavoriamo: ormai portiamo costantemente la nostra vita privata nel nostro ambiente lavorativo. Quella barriera “fordista” per cui ciascuno di noi in ogni singolo momento dato o era un lavoratore o era un padre, o era un padre o era una persona che si stava divertendo, non esiste più, e tutti noi, divenuti appunto “organismi informazionali reciprocamente connessi” quando arriviamo in ufficio, stiamo anche continuando a mantenere tutto il flusso di comunicazione con le nostre vite, con la conseguenza che le nostre competenze, che un tempo erano divise tra quelle professionali e le altre extra-professionali sono totalmente mescolate in un personale saper vivere, al tempo stesso costante e mutevole, che non è più classificabile con le categorie novecentesche, ma che ancora non ha elaborato né trovato un universale da cui farsi raccontare e ricevere senso.

Questo che effetti produce? Significa che noi (importante: non è rilevante a quale generazione apparteniamo) ancora più di prima sentiamo la necessità di stare ben anche al lavoro. Perciò, stiamo diventando attivamente delle persone che cercano di adattare la realtà, anche quella lavorativa, in modo

che sia quanto più possibile vicina al nostro benessere. Mi piace definire questo fenomeno con l’idea di essere degli “hacker di processo”, cioè delle persone pronte a comprendere a fondo i meccanismi del proprio sistema di lavoro e all’occorrenza modificarli per soddisfare la propria unicità 2 .
Insomma, la situazione è complessa e molti si dichiarano convinti che la soluzione sia favorire la collaborazione; tuttavia, la maggior parte di essi lavora ancora in strutture gerarchiche, contrappositive, spesso inconsapevoli del proprio footprint e degli effetti di esso.
Tutto questo può generare o meno un conflitto sociale, ma sicuramente continua a determinare cambiamenti nelle organizzazioni e nei luoghi che le ospitano, specie i grandi centri urbani, che in quanto attrattori dei flussi di domanda ed offerta di lavoro sono attraversati da una spinta alla trasformazione e alla riqualificazione delle modalità con cui li abiteremo man mano che si allunga la nostra vita attiva.

Davanti a tutto questo, ti domando se a tuo avviso si sta realizzando o almeno progettando un prolungamento della vita lavorativa che sia sostenibile senza farci sentire cammelli chiamati a passare dalla cruna dell’ago della forma del lavoro. Dal XVIII secolo il lavoro è stato al centro della modernità; oggi, la fine di essa ci fa dare al lavoro una funzionalità più connessa al modo di essere dell’individuo (un tempo avremo detto meno alienante), il quale, liberato dagli imperativi del modernismo, può agire il proprio lavoro come una delle interfacce sociali a sua disposizione.

Questa ritrovata dimensione “personale” riporta l’attenzione sulla parola “lavoro” in sé, che richiama le dimensioni della fatica, del sacrificio, della privazione 3 . Significati che davvero sembrano poco adatti ad indicare e, soprattutto, attivare l’energia necessaria al longevo individuo contemporaneo per contribuire alla creazione di ricchezza e benessere per sé e la propria comunità, in armonia con l’ecosistema che lo ospita. Non a caso, forse, guadagnano spazio locuzioni come “smart work”, “flexible work” o “agile working” che segnalano la destrutturazione del passato e certificano, con la loro diffusione nel parlato quotidiano, che è in corso una trasformazione del lavoro che conviene seguire da vicino perché ci riguarda qualunque sia la nostra relazione con esso.

Caro lettore, grazie per avermi seguito sin qui, dove prossimamente potrai leggere gli approfondimenti di queste riflessioni.

1 Luciano Floridi, «The fourth revolution – How the infosphere is reshaping human reality».
2 Lo hacking di processo non va confuso con il job crafting (v. p.e. http://positiveorgs.bus.umich.edu/wp-content/uploads/What-is-Job-Crafting-and-Why-Does-it-Matter1.pdf) con il quale condivide solo la proattività del lavoratore.
3 https://en.wikipedia.org/wiki/Tripalium

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