Sport: Riccardo Tafà, Managing Director di RTR Sports Marketing

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Dopo un lunghissimo periodo di assenza, il palinsesto dei vari media si è tornato ad arricchire dell’offerta legata agli eventi sportivi.
Un’industria ripartita quasi forzatamente in virtù dei moltissimi interessi che la caratterizzano. Tra questi quello riconducibile alle numerose aziende che legano la propria immagine ad un team, una squadra, un atleta. Un legame che nasce dalla condivisione, fondamentale per coerenza e integrità, dei valori tra il brand stesso e lo sport. E che trova poi declinazione in infinite opportunità tanto di marketing e commerciali, quanto di reputazione e di visibilità.
In questo nuovo scenario, dove ci siamo abituati da tifosi a fruire in maniera diversa dello spettacolo sportivo, che ruolo avranno la sponsorizzazione e la partnership? Come cambierà il rapporto tra brand e sport? E quale sarà il rapporto tra sponsor e tifosi?

Ce ne parla Riccardo Tafà, Managing Director di RTR Sports Marketing, una vita fra le piste e gli uffici di tutto il mondo, per creare circoli virtuosi fra grandi marchi e grandi team.

John Fitzgerald Kennedy disse una volta che “scritta in giapponese, la parola crisi è composta di due caratteri. Il primo rappresenta il pericolo, l’altro l’opportunità”. È una frase che ci siamo sentiti ripetere – e che abbiamo ripetuto – centinaia di volte e che abbiamo ritrovato in migliaia di motivational poco ispirati. Ma è anche, ed è giusto precisarlo, un’affermazione completamente errata. I due kanji giapponesi della parola “crisi” significano infatti solamente “intelaiatura pericolosa”.

Il fronzolo accademico che avete appena letto, più che una disquisizione lessicale, serve a sdoganare un mito assai diffuso e altrettanto menzognero, ovvero appunto che ad una crisi equivalga automaticamente una nuova opportunità. I mesi appena trascorsi, che ora presentano un conto salato, ce lo hanno dimostrato con vigore: per creare un’opportunità da una crisi occorrono competenze, creatività, impegno e molta fatica. È un percorso lungo, che spesso presuppone la messa in discussione del modello ex ante e del superamento di molti dogmi che ci hanno condotto fino a qui. È, insomma, un bel pasticcio. C’è però anche una bella notizia: alla fine di tutto questo ne usciremo, necessariamente, migliori.

Da più decenni di quanti io vada in giro a raccontare lavoro nello sport: un mondo che, a discapito delle imponenti innovazioni che si vedono sui campi e sulle piste, possiede tradizionalmente fondamenta abbastanza semplici. Al netto dei tecnicismi, una gara di automobili è la stessa oggi e un secolo fa. Quando la crisi, sotto forma di virus a singolo filamento di RNA, si è abbattuta su questo mondo, ci si è rapidamente accorti che era venuto a mancare ciò che per secoli era stato dato più che per scontato, ovvero il prodotto. Dell’opportunità di kennediana memoria, però, neppure l’ombra.

Proprio l’assenza di prodotto, e la conseguente ricerca della soluzione, ha immediatamente rimesso sotto il riflettore dell’industria del marketing sportivo una lapalissiana evidenza: è lo sport – nel senso della partita, della gara, della corsa, dell’accadimento – il centro della nostra costellazione.

Pare una banalità, specie se per anni ci si è arrovellati su diritti televisivi, stadi di proprietà, cessioni multimilionarie e sfumature del regolatorio, ma d’improvviso l’importanza di “tornare a giocare” è emersa in tutta la sua potente risolutezza. Come parimenti è riemersa la straordinaria caratura sociale dello sport, vero e proprio metronomo della nostra esistenza, ma anche grande aggregatore ed intrattenitore, oltre che eccellente facilitatore commerciale.

Ma non è tutto. L’assenza di prodotto aveva costretto gli operatori del marketing sportivo ad una domanda scomoda: cosa c’è oltre la visibilità? Cosa succede a sponsor, investitori e tifosi quando la squadra non gioca, la macchina non corre, la moto non gira in pista?

Il tema della “attivazione”, ovvero della trasformazione in azioni concrete dei diritti ricavati dalla sponsorship, è da molti anni oggetto di grande attenzione da parte di agenzie e esperti di sponsorizzazione. Troppo spesso, in passato, si è infatti confusa la sponsorizzazione con l’esposizione di un marchio su una maglia o su una macchina, dimenticando l’enorme sostrato di opportunità commerciali e di marketing al di sotto della superficie dell’iceberg.

Su questo, il virus ha imposto una riflessione, all’inizio sconnessa e disordinata, fatta di interviste improvvisate su Zoom, sondaggi dalla grafica rivedibile, concorsi sghembi su Twitter e Instagram. Tentativi zoppi, forse, ma che in sé portano alcuni germi di quell’opportunità di cui si parlava in apertura: mostrare (o cercare di mostrare) quanto valore esista davvero dentro una partnership, una sponsorizzazione, una affiliazione. Quanto ci sia di più di un semplice marchio su una divisa.

Nel momento in cui si scrive, la tanto agognata ripartenza è finalmente avvenuta. Il campionato di calcio, così come la massima competizione europea, si è conclusa e la MotoGP e la Formula 1, grazie anche a inattesi colpi di scena, regalano a domeniche non più alterne straordinarie emozioni ai tifosi. Anche la pallacanestro NBA, chiusa nella fatata bolla di Orlando, sta battendo in questi giorni i suoi ultimi, spettacolari, colpi. Lo stesso dicasi per tennis, ciclismo e molto altro ancora. Chi guarda dagli schermi TV si è già abituato all’assenza di pubblico sugli spalti ed è tornato a concentrarsi sull’unica cosa che davvero conta, ovvero l’azione in campo e in pista. Gli ascolti televisivi, come da copione, conoscono periodi di grande salute.

Il percorso è terminato? Ovviamente no. Al contrario, i mesi che ci aspettano riservano ancora numerose criticità, oltre a diverse aree di incertezza. Perché allora tanta sicumera nel dire, come si scriveva nelle prime righe, che l’industria del marketing sportivo ne uscirà migliorata?

Per diverse ragioni.

La prima.

Lo sport ha mostrato l’importanza decisiva del suo ruolo proprio attraverso la sua assenza nei mesi del lockdown. È un’importanza che le aziende e i marchi non possono ignorare se vogliono comunicare efficacemente con il loro target e se vogliono essere rilevanti in un modello di entertainment che è sempre più at-home e sempre più on-demand. Finché lo sport possederà un tale peso specifico nella nostra vita e nella nostra cultura, la sponsorizzazione sarà un dei sistemi meglio funzionanti per parlare col grande pubblico.

La seconda.

Il lockdown e la ripartenza a porte chiuse hanno smascherato i limiti di un sistema che si preoccupava troppo della forma per badare alla sostanza, ma che è stato costretto a ripensarsi e rendersi più efficace, più professionalizzato e più pensante. Quando si rimette al centro della ricerca l’oggetto giusto, anche il resto della prospettiva è più semplice da costruire.

La terza.

La tecnologia è un’asset fondamentale per comunicare lo sport al pubblico, ma è necessario interrompere la semplicistica equivalenza fra tecnologia e social media. I social sono importanti ma il lockdown ha mostrato che si può e si deve fare di più dal lato digitale per gli sponsor e per i fan. Applicazioni proprietarie che generano database e innescano funnel virtuosi, realtà aumentata che oltrepassa i confini geografici di questo stadio o quell’impianto, digital signage connesso che aumenta il rapporto fra campo, sponsor e tifoso e chi più ne ha più ne metta. Le potenzialità sono milioni e stiamo solo iniziando a comprenderle.

La quarta.

La televisione è ancora il mezzo principe per la trasmissione dello sport, ma è il concetto stesso di televisione che necessita di essere ripensato a favore di investitori, partner e tifosi. Barricare partite, gare e intere serie dietro a contratti esclusivi di pay-per-view che impongono allo spettatore decine di abbonamenti a pacchetto non è la soluzione. L’on-demand vero, che si sta sviluppando in alcune leghe e campionati, è quello che consente allo spettatore di vedere ciò che vuole, dove vuole a prezzi ridotti con servizi OTT.

La quinta.

Gli sponsor non sono semplicemente dei fornitori di denaro, ma dei partner e dei provvidenziali fornitori di contenuti, expertise e potenza media. È sufficiente vedere quanto aziende come Red Bull, Petronas e altre – che già in passato avevano compreso il potere di divenire vere e proprie media house – siano uscite trionfatrici da un lockdown che ha messo tutti allo stesso punto di partenza.

La sesta.

Il marketing sportivo è a tutti gli effetti un’industria globale, che deve pensare ed operare come tale ma che, in tal proposito ha uno straordinario asso nella manica: lo sport è lo strumento di comunicazione senza barriere per eccellenza. Questo deve essere un asset indimenticabile per la sponsorizzazione e per lo sports marketing in generale.

La settima, ed ultima.

La crisi, come tutte le crisi, ha avuto il grande pregio di levare il velo di Maya e far scomparire dalla mappa i non professionisti, chi navigava di conserva, chi non portava idee al tavolo e chi non operava in maniera seria. Quello che si è perduto in quantità, lo si è verosimilmente guadagnato in qualità, con buona pace di clienti e collaboratori.

Detto questo, e per concludere, la strada da compiere verso una nuova industria dello sport è lungi dall’essere terminata ma il sentiero è tracciato. È imperativo non cadere vittima di assolutismi da circolo ricreativo o da ricette preconfezionate e approcciarsi alla crisi e ai suoi retaggi con serietà e voglia di rinnovamento. Un rinnovamento che sarà tanto necessario quanto inevitabile, proprio perché la crisi è eterodiretta e vi è poco da fare in tal senso. Il COVID non è una triste parentesi già conclusa ma verosimilmente qualcosa con cui dovremo convivere e – se possibile – crescere. Per farlo diventare un’opportunità serve lavoro, ma l’occasione è ghiotta e i frutti paiono promettenti.

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